Nell’ambito della grande mostra Ritorno al barocco da Caravaggio a Vanvitelli la natura morta napoletana, giustamente definita natura in posa, per la vivacità dei suoi colori e per la gioiosa vitalità che manifesta, è esposta al museo Pignatelli con 60 quadri, che coprono completamente il periodo in esame.

Molte incertezze regnano ancora sul tema e molti sono i dubbi attributivi e le questioni che attendono una più puntuale precisazione documentaria, tanto da far auspicare, anche se da prendere come una provocazione, un'azzeramento quasi totale delle conclusioni critiche e storiografiche passate ed una nuova ripresa degli studi sull'argomento con occhi nuovi e con mente sgombra da ipotesi precostituite e da pregiudizi di parte.
Da tempo e non solo quella napoletana, la natura morta attraversa un periodo difficile di assestamento per la difficoltà di definire con certezza la produzione di ogni singolo artista, per la scarsa quantità di dati documentari, ma soprattutto per l’assenza di studiosi veramente esperti dell’argomento.

Negli ultimi venti anni non vi sono stati progressi di rilievo negli studi ad eccezione dei periodici e coraggiosi interventi del De Vito, sulle pagine della sua benemerita rivista, che si è interessato a quasi tutti i protagonisti del genere, della grande mostra che si è tenuta tra Firenze e Monaco nel 2003 e di una importante rassegna, con interessanti interventi in catalogo, tenutasi nel 2006 presso la Galleria Canesso a Parigi.
Il curatore della mostra Nicola Spinosa ha preferito il titolo di natura in posa al posto di quello usuale di natura morta, perché a Napoli a differenza della pittura nordica i fiori profumano, la frutta è appetibile ed  i pesci sono guizzanti ed animati da un esuberante palpito di vita.

I visitatori sono accolti da uno dei quadri più celebri del genere, già esposto nel 1984 a Civiltà del Seicento: Frutta e verdura con fioriera e colomba in vola(fig. 1), oggi visibile dopo un accurato restauro, che ha evidenziato un sorprendente dettaglio inedito di un’ala di un’altra colomba, sulla destra, che ne accentua il dinamismo ben oltre i confini naturali della tela. Negli ultimi anni l’anonimo autore non ha trovato un nome ed anzi taluni studiosi hanno proposto per lui una diversa area geografica di appartenenza.

La storia attributiva della tela è lunga e complessa: dopo essere stata assegnata a Belvedere dall’Ortolani nel 1938 ed al giovane Paolo Porpora dal Causa nel 1951, nel 1972 lo stesso studioso propendeva per un ignoto napoletano di formazione caravaggesca operante nella seconda metà del terzo decennio. Quindi Marini spostava la tela in ambito romano pensando al Crescenzi e Mina Gregori ipotizzava l’area lucchese ed il pennello di Pietro Paolini.
Dopo un lungo periodo di incertezza Nicola Spinosa, in occasione di questa mostra, dove il quadro, sottoposto ad un eccellente restauro ha permesso una migliore lettura,  evidenziando una lucentezza ed una definizione luministica degli oggetti raffigurati, ha ipotizzato la mano di Luca Forte ed una datazione nella prima metà del quarto decennio del XVII secolo, naturalmente in attesa di nuove proposte o di un decisivo ausilio documentario.

Un’importate novità nel panorama della specialità a Napoli è costituita dalla ipotesi avanzata da Leone de Castris di attribuire a Giacomo Coppola una splendida tela raffigurante Frutta con cesti, uccello, fiasco, bicchiere di vino, salami e vaso di fiori(fig. 2) conservato nel museo civico di Gallipoli.
Il quadro in passato era stato attribuito al pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola sulla base della sigla GC, interpretata in seguito da Bologna come le iniziali di Carlo Coppola, battaglista della bottega falconiana. Fu il Causa nella sua impareggiabile esegesi del 1972 a respingere entrambe le proposte ed a creare un nome di convenzione: Maestro di Casa Coppola ”un altro napoletano della generazione antica, prima della metà del secolo, che ammoderna Luca Forte ed il Maestro di Palazzo San Gervasio, tenendo d’occhio le cucine di Titta  e qualche risultanza più giovanile di G.B. Ruoppolo”.
Leone de Castris, sulla base di alcune polizze di pagamento del 1610(una data a nostro parere troppo alta) ha proposto di identificare l’autore della tela pugliese con un Giacomo Coppola non altrimenti noto, il che permetterebbe di reperire nella tela in esame un incunabolo del primo tempo della natura morta a Napoli, al quale avrebbe guardato il miglior Quinsa, il primo Titta Recco e soprattutto il più antico Luca Forte.

Bacco giovinetto disteso sotto tralci di vite(fig. 3) del museo di Francoforte, a lungo attribuito al Sellitto ed oggi finalmente sotto la giusta etichetta di Anonimo caravaggesco(meridionale?) è il segnale delle difficoltà in cui versano gli studi sul genere, anche se nel dipinto in esame la parte di figura è preponderante rispetto ai grappoli di uva. Ghiotta è l’occasione di vedere da vicino la tela, a molti, anche tra gli specialisti, nota solo in foto, anche se al momento qualsiasi tentativo di fornire il nome dell’autore o quanto meno circoscrivere con precisione l’ambito culturale  è del tutto velleitario, come giustamente sottolineato dal Porzio nella scheda del catalogo.

Giacomo Recco, considerato per decenni tra i patriarchi del genere partenopeo era stato nell’ultimo decennio completamente rivisitato dal De Vito che, grazie al reperimento di un  fondamentale documento, aveva espunto dal suo catalogo gran parte della sua tradizionale produzione consistente principalmente in vasi elegantemente decorati, spesso con stemmi nobiliari e fiori stilizzati di gusto nordico.(Per chi volesse approfondire la questione consiglio di consultare la voce relativa nel mio volume sulla Natura morta napoletana dei Recco e dei Ruoppolo). Anche la grande mostra di Monaco e Firenze del 2003 aveva seguito questa linea, trasferendo tutta una serie di dipinti, in passato assegnati a Giacomo Recco, nel catalogo di un non ben definito geograficamente, ma non napoletano, Maestro dei vasi a grottesche. Per cui è stata grande la meraviglia di rivedere sotto l’antica attribuzione due dipinti(fig. 4), tra cui anche un vaso a grottesche. Il merito e la responsabilità della riesumazione sono di Nicola Spinosa, che già dalla mostra di pittura napoletana di Madri del 2008, ha ritenuto di riattribuire a Giacomo Recco un gruppo di vasi con fiori, palesemente arcaici rispetto alla produzione successiva. 
Tra le variazioni attributive, la più audace è senza dubbio quella già maturata lo scorso anno alla mostra i Colori del gusto di pensare a Ribera come all’autore dell’Interno di cucina con testa di caprone(fig. 5 ), una delle vette del genere, in passato assegnata da illustri studiosi come Causa, Bologna e Salerno alternativamente a Giovan Battista Ruoppolo, Giovan Battista Recco ed infine a Giuseppe Recco, a lampante dimostrazione della difficoltà di avere certezze nello scivoloso ed infido campo della natura morta napoletana.

Spinosa, a cui si deve la nuova ipotesi, cerca di giustificarla con similitudini nella resa del sangue fuoriuscito dalla testa del caprone con quello presente nella testa del Battista conservata nel museo Filangieri, oltre a raffronti, molto più aleatori, con altri brani presenti alla base di altre composizioni del valenzano, in primis l’Olfatto della collezione Juan Arellano presente in mostra.
A tal proposito rammentiamo che questa ipotesi non è nuova, lo stesso Causa nella sua insuperabile esegesi sulla pittura napoletana del 1972 dichiarava:” il tavolo da cucina con la testa di caprone scannato sanguinolenta, pateticamente mansueta, un dramma di rara efficacia, indimenticabile, chè par quasi Ribera vecchio applicatosi a translar nel campo del genere le sue malinconie senza speranza”. E ricordo inoltre la confidenza dieci anni fa di un giovane studioso, oggi stimato docente universitario, il quale era certo dell’autografia riberiana, ma aveva timore di manifestarla pubblicamente, fino a quando non fosse divenuto autorevole, andando in cattedra.

Di Luca Forte è in mostra una Marina con pescatori e mostra di pesci(fig. 6), siglata f, eseguita certamente in collaborazione con Aniello Falcone(come da noi pubblicato nella monografia dedicata all’artista) e non, come ipotizzato da Spinosa e Leone de Castris con Micco Spadaro. Il dipinto è caratterizzato da uno splendido scorcio di paesaggio con un cielo azzurro che purtroppo oggi possiamo ammirare solo nei quadri.
Splendidi i Putti con fiori(fig. 7) di collezione D’Amato, eseguiti con pari dignità in collaborazione con Massimo Stanzione, uno dei quadri più belli ed interessanti transitati sul mercato napoletano negli ultimi anni, che può essere collocato cronologicamente ai primi anni Cinquanta.

Dubbia è viceversa, a nostro parere, l’autografia della ghirlanda di frutti(fig. 8), un tema nordico, eccezionalmente presente tra i nostri artisti, soprattutto quando sono in evidenza frutti carichi di simbolismo: l’abbondanza per il melograno e le spighe, mentre i roditori alludono allo scorrere inesorabile del tempo.
Anche l’ipotesi di Brejon de Lavargnée di attribuire ad Andrea De Lione i due dipinti provenienti dal Principato di Monaco,  raffiguranti Tamburi ed armature (fig. 9 - 10) ci pare quanto mai fantasiosa e pensiamo che l’autore sia da ricercare probabilmente, più che tra i pittori nordici, in ambito genovese.
Paolo Porpora è rappresentato da otto dipinti, non solo fiori e sottoboschi, ma anche pesci e conchiglie, in linea con la visione moderna, propugnata dal De Vito di un pittore in grado di rendere sulla tela i più diversi aspetti della natura.

Con le sue tele la visione della natura raggiunge il culmine della perfezione. La brillantezza purpurea degli scorfani, le sfumature madreperlacee delle conchiglie e dei pesci, le ruvide incrostazioni dei gusci dei frutti di mare, ma anche i piumaggi dei volatili e la corposa consistenza degli ortaggi e perfino la fragilità delle ali di farfalla, acquistano una verità oggettiva anche se in un clima visionario.
Descriviamo uno splendido Sottobosco con anatre, fiori e volatili(fig. 11), una specialità dell’artista,  presentato alla mostra di Madrid del 2008 come inedito, anche se da noi già pubblicato nel 1999 (pag. 404 – 405 e quarta di copertina del volume VI del Secolo d’oro della pittura napoletana). La tela è immersa in una luce vespertina che crea un’atmosfera di mistero, resa dal Porpora con la graduale varietà di una tastiera cromatica che, opportunamente dosata, permette di rappresentare con eguale forza la foglia avvizzita, segno di decadenza e di morte, come le tenere pernici e le languide paparelle, espressione di calma, di tranquillità e di vita.
tratto da www.napoli.com